Dentifrici abrasivi che rendono il sorriso splendente; detergenti scrub per una pelle perfetta; bagnoschiuma “effetto centro benessere” per frizionare il corpo; detersivi più efficaci grazie alle microsfere pulenti. Tutto magnifico. Tranne il fatto che queste sostanze poi le ritroviamo nel pesce che mangiamo, e da lì nell’intera catena alimentare.
Circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti finiscono ogni anno negli oceani di tutto il mondo trasformandoli in una grande discarica. Nel nostro Mediterraneo, più dell’80% è plastica. Un nemico già noto, da anni, ma recentemente è mutato: infatti la plastica non si biodegrada ma con la luce del sole si divide in parti sempre più piccole (fotodegradazione) che alla fine vengono ingerite dalle specie marine entrando quindi nella catena alimentare.
Quello che ho potuto esaminare – racconta a BioEcoGeo la dottoressa Antonietta Gatti, scienziata di fama internazionale che studia e analizza le nanoparticelle e le nanopatologie, impegnata in numerosi progetti di ricerca in molti Paesi del mondo – è che le ridottissime dimensioni di queste particelle fanno sì che esse siano ingerite dai pesci. Le trovo negli alimenti e da qui finiscono nella catena alimentare. E nel nostro organismo. Nano-agglomerati di plastiche».
L’Unione europea con una direttiva del 2008 recepita dall’Italia sei anni fa, si prefigge la protezione dell’ambiente marino. Sono le Arpa regionali le destinatarie dei fondi e dei progetti. E, come spesso accade, poi le buone intenzioni si scontrano con gli scarsi mezzi e la burocrazia.
Ne sa qualcosa l’Arpa delle Marche che da mesi non è riuscita a uscire in barca per i prelievi a causa di un guasto (successivamente riparato).
Va meglio in Emilia Romagna dove i fondi comunitari sono sfruttati in un progetto regionale. Idem in Toscana: ma ovunque siamo ancora alle analisi propedeutiche.
Se i programmi di monitoraggio regionali arrancano, sopraffatti da enormi difficoltà, un gruppo di ricercatori iberici ha stabilito che nel Mediterraneo «La concentrazione media nella superficie marina è di circa un frammento per ogni 4 metri quadrati e che la presenza nelle zone più inquinate arriva fino a 10 pezzi per mq». Emerge da “Plastic Accumulation in the Mediterranean Sea“, uno studio condotto dalle Università di Cadice e Barcellona, pubblicato sul magazine Plos One. I ricercatori hanno scoperto che «il Mediterraneo agisce su scala globale come bacino connettivo tra gli inquinamenti degli Oceani».
Sono stati rilevati 5 tipi di frammenti derivati da prodotti di plastica, suddivisi in altrettante categorie: pellet industriale (residui grezzi) e granuli (da cosmetici), pellicole sottili (sacchetti), fili da pesca, schiuma, frammenti (pezzi da oggetti rotti). Si tratta per l’83% di elementi inferiori ai 5 mm di lunghezza definiti come microplastiche. Inoltre dalla concentrazione media di plastica misurata nel Mediterraneo, il carico totale di detriti in superficie è di circa 1.000 tonnellate, il 7% del carico globale.
E se l’Adriatico impensierisce a causa della sua natura di “bacino chiuso”, anche il Tirreno non è messo bene. I dati sono di Goletta verde diffusi al convegno “Plastic free sea”: quasi 2600 rifiuti galleggianti avvistati l’anno scorso; di questi il 95% è plastica: in media 32 ogni kmq con i valori massimi nel Tirreno centrale con 51 per kmq.
Qualcosa, comunque, si muove. La Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia ha dato il via al bando del Programma di cooperazione transnazionale Interreg V-B Mediterraneo ‘Mimma’ (Monitoring and Impact of Microplastic in Mediterranean areas), che vede capofila l’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste (Ogs). Progetto coperto per l’85% dal Fondo europeo di sviluppo regionale e per il 15% da risorse statali. “Mimma”, in particolare, vale 3 milioni di euro e verte su salute del mare, in particolare sui frammenti di plastica, di grandezza inferiore ai 5 millimetri, che sostano nelle acque.
Anche il Veneto si è messo in moto, dopo aver analizzato sette chilometri di acqua nel canale della Giudecca e aver trovato più di 500 rifiuti galleggianti raccolti in sette chilometri (in media, uno ogni tredici metri), nell’87% dei casi di plastica. La campagna si chiama ‘Don’t Waste Venice‘, ed è inserita all’interno del progetto europeo di ricerca ‘DeFishGear’ che ha unito Italia, Grecia, Slovenia, Montenegro, Albania e Bosnia. In particolare i ricercatori dell’Università Ca’Foscai di Venezia, guidati da Giulio Pojana, si sono specializzati nello studio di micro e nanoplastiche. La loro pericolosità sta proprio nelle ridotte dimensioni, che le rendono facilmente ingeribili. Consideriamo che i mitili filtrano circa 50 litri di acqua al giorno.
Il polietilene (Pe) che compone le bottigliette di plastica dei detersivi, il polistirene e il polistirene espanso sono le plastiche che più facilmente assorbono inquinanti chimici come il pirene, composto tossico, cancerogeno per reni e fegato. «Anche le diossine vengono intrappolate dalle microplastiche che poi rischiano di essere assorbite. Alcuni polimeri, scrive l’università di Venezia nel suo rapporto – come il cloruro di polivinile e il polipropilene sono in grado di assorbire molecole tossiche come il DDT e gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa). Ci sono poi le nanoplastiche, inferiori a 0,3 millimetri, con le stesse proprietà delle microplastiche di assorbire i tossici ma molto più piccole e insidiose perché in grado di incorporare molte più sostanze a parità di peso e di essere ingerite anche dai più piccoli organismi della catena alimentare come il plancton».
Le Arpa delle regioni che si affacciano sull’Adriatico lanciano l’allarme e cooperano ma chiedono tutti a gran voce un intervento legislativo per favorire la prevenzione. Magari guardando alle pratiche più virtuose. In questo caso, gli Stati Uniti.
Il 4 Gennaio scorso, 2016, Barack Obama, ha firmato la legge che vieta, a partire da metà 2017, la vendita o la distribuzione di prodotti cosmetici contenenti micro-granuli. La legge denominata ‘The Microbead-Free Waters Act‘ recepisce altre leggi statali che già vietavano o eliminavano gradualmente i micro-granuli (tra queste quella della California e dell’Illinois).
Lo scopo della legge è quello di tutelare gli oceani, i mari e i laghi dalla sempre maggiore invasione di micro-sfere di plastica contenuti in cosmetici e prodotti per l’igiene personale. I micro-granuli sono appunto micro-sfere di polietilene o polipropilene di dimensione non maggiore ai 5 mm.
Nel 2013 uno studio effettuato dall’Università del Wisconsin sui Great Lakes, pubblicato su Environmental Science & Technology ha denunciato che quotidianamente venivano riversati nelle acque dei laghi più di 8 miliardi di micro-granuli: circa 300 campi da tennis ogni giorno. Questo accade perché queste sfere di plastica riescono a passare intatte attraverso la rete fognaria andando a inquinare fiumi, laghi, mari e oceani. Non c’è filtro, infatti, che riesca a trattenere i micro-granuli.
Secondo lo studio dell’Unep pubblicato nel 2015 Plastic in Cosmetics: Are We Polluting the Environment Through Our Personal Care?, «negli ultimi 50 anni, micro-particelle di plastica o micro-plastiche, sono state regolarmente utilizzate in prodotti per la cura personale e la cosmesi, sostituendo le opzioni naturali. L’analisi di laboratorio di un gel doccia tipo, ha rinvenuto tanto materiale plastico all’interno, quanto quello usato per realizzare la confezione (…) Liberate nello scarico, queste particelle non possono essere recuperate per il riciclo, né si decompongono negli impianti di trattamento delle acque reflue, e inevitabilmente finiscono nell’oceano, dove rimangono per lunghissimo tempo».
In Europa solo nel 2012 sono state utilizzate 4.300 tonnellate di micro perline polimeriche. Gli Stati Uniti hanno battuto un colpo. L’Europa, risponda.
(fonte: http://www.bioecogeo.com/zuppa-di-plastica/)